ScritturaMiti e tempo ciclico

L’invidia di Duryodhana in questo mondo incoerente

Attraverso molti anni di studio e lavoro sul testo sanscrito del Mahabharata, Gurcharan Das ha pubblicato il libro “The Difficulty of Being Good”,  un’opera che analizza come il grande poema epico indiano possa illuminare i dilemmi morali dell’uomo moderno, offrendo la modalità di profonda riflessione a cui il Mahabharata stesso invita. Das mostra, in altri termini, perchè il Mahabharata è un eterno classico: perchè racconta il mito. E il mito non ha tempo e non ha luogo.

Ho trovato la sua analisi del dharma penetrante, stimolante e  piena di fascino, rendendo piena giustizia ad uno dei poemi mitologici più complessi e interessanti del mondo. Riporto di seguito una mia traduzione del brano “L’invidia di Duryodana in questo mondo incoerente”.

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Ciò che maggiormente caratterizza l’incertezza della nostra vita, è spesso l’insieme delle nostre stesse fragilità. I difetti morali dell’essere umano rendono il nostro mondo denso di “vaishamya” (disodine, incoerenza) e frequentemente portano con sè delle brutte sorprese che ci rendono vulnerabili. Duryodhana è una delle cause primarie delle asperità nel Mahabharata: egli soffre di così tanti vizi (orgoglio, rabbia, avidità, odio, eccesso di ego, ecc.) ma il suo maggior difetto è l’invidia, la forza trainante della calamità nel Mahabharata.

Duryodhana comprende – alla consacrazione di suo cugino – di sentirsi inferiore ancor prima del successo dei Pandavas. “Quale uomo di coraggio starà a guardare il prosperare dei suoi rivali e il proprio declino?” è la sua invidiosa reazione alla buona sorte di Yudhishthira. È come se volesse dire “Perchè non io?” – l’annosa domanda dell’invidioso. L’invida, naturalmente, “è insita nella natura dell’uomo“, secondo Immanuel Kant. Francamente, non ho mai incontrato nessuna persona libera dall’invidia, sebbene alcuni sostengano di esserlo. L’invidia è così pervasiva, così naturale, che spesso non la si riconosce. L’universale umana tendenza all’invidia forza il Mahabharata verso una conclusione devastante: si ritiene che una persona invidiosa non possa essere sincera. Di tale persona non ci si può fidare in quanto l’invidia stessa priva l’individuo di una parte della sua libertà. E “la libertà è realizzata attraverso un uomo buono, che possiede la verità“. [Mahabharata XII.156.14]

L’invidia comporta un invidioso (Duryodhana), un invidiato/rivale (Yudhishthira) e un possesso (il talento dei Pandavas per il successo). Il possesso può essere un oggetto (il trono) ma può anche essere un talento come l’abilità con l’arco di Arjuna. In questo caso, l’invidia di Duryodhana potrebbe essere stata incitata dalla recente ricchezza e salita al potere di Yudhishthira, ma egli è abbastanza intelligente da capire che la sua invidia in definitiva riguarda la comune abilità dei Pandavas di acquisire “il possesso” in generale. Quindi, egli non vuole meramente il trono, ma vuole invece distruggere i Pandavas.
L’invidia di Duryodhana lo porta a odiare i Pandavas. Anche ciò può essere compreso, in quanto “l’odio accompagna sempre l’invidia [Schopenauer]”. Duryodhana ripensa ossessivamente al successo e al potere dei Pandavas, crescendo nell’ansia, nel pallore e nelle malattie. Il suo comportamento tradisce un’altra caratteristica dell’invidia: una colossale perdita di energia mentale, ed è per questo che gli scrittori di tutti i tempi l’hanno sempre associata alla salute fisica. Orazio scrisse che coloro che venivano colpiti dall’invidia sarebbero cresciuti magri e cagionevoli mentre il Cassio di Shakespeare divenne “emaciato e affamato”. Chiaramente, l’invidia è un pericolo per la salute.

Duryodhana decide che non sarà mai felice finchè non riuscirà a rovinare la felicità dei Pandavas. Schopenauer cattura questa caratteristica dell’invidia in un devastante ritratto:
Poichè si sentono infelici, essi non possono sopportare la vista di qualcuno che ritengono felice… nello sconfinato egoismo della nostra natura si può trovare in quasi tutti gli esseri umani un fondo di odio, rabbia, invidia, rancore e malvagità, accumulata come un veleno in un dente di serpente“.

La tendenza umana a valutare il proprio benessere attraverso il confronto con quello dell’altro, è la causa del disagio di Duryodhana.

Tuttavia, la sua invidia è perlomeno palese ed evidente, mentre quella di suo padre è nascosta e sottile. Lo stesso re cieco spesso non è cosciente di questo, e quindi non lo ammette. Dhritarashtra è un ipocrita, perciò molto più pericoloso. Egli ha trovato una via intelligente per gestire la sua invidia, affinchè il mondo possa così avere una migliore opinione sul suo operato e – ugualmente importante – affinchè egli stesso possa avere una più solida opinione di sè. Sebbene egli simuli di essere virtuoso, segretamente desidera che vengano attuati i più profondi desideri di suo figlio.
Come Polonius nell’Amleto, Dhritarashtra offre pacifici consigli raccomandando suo figlio di essere giusto e virtuoso; tuttavia egli è subdolamente soddisfatto del piano di Duryodhana per far cadere Yudhishthira nella trappola della partita a dadi. L’invidia di Dhritarashtra si manifesta nei momenti di minore attenzione: Bhima non potrà dimenticare la malcelata gioia sul viso del cieco man mano che Yudhishthira andava perdendo la partita: ad ogni lancio del dado, la maschera dell’ipocrisia cadeva.

Tale invidia nascosta dall’ipocrisia è stata spesso considerata di gran lunga più pericolosa di quella palese di Duryodhana. Gli antichi Greci compresero che il solo fatto che una persona possa ottenere successo e prosperità, è di per sè una buona ragione per generare invidia in un altro. Essi ritenevano l’uomo essere naturalmente vittima dell’invidia “essendo l’invidia parte fondamentale del carattere e delle attitudini dell’uomo [Peter Walcot – Envy and the Greeks]”. Dato che l’invidia non poteva essere soppressa, i Greci escogitarono una modalità per usarla a proprio favore con l’ostracismo per le persone di successo, in particolar modo i politici più popolari. Aristide il Giusto fu messo da parte – secondo Plutarco – perchè era troppo buono: in Atene si diceva “Sono stufo di sentir continuamente parlare di tutte le sue virtù“. Temistocle fu esiliato perchè viveva troppo agiatamente e ostentava arie di superiorità. Ostracismo significava dover lasciare la città per dieci anni affinchè ci fosse il tempo per lasciar raffreddare l’invidia. Socrate potrebbe essere stato messo a morte per la stessa ragione: “invidia per la sua grande integrità e virtù [Joseph Epstein – Envy: The Seven Deadly Sins]”.

Ma i Greci non furono i soli a cacciare gli uomini di Stato e i generali. Winston Churchill fu battuto nelle elezioni del 1945; molti conservatori interpretarono la sua sconfitta come il risultato di invidia e risentimento da parte degli elettori, e come il timore che egli avrebbe potuto acquisire troppo potere o diventare eccessivamente popolare. De Gaulle fu soggetto a un simile destino nel 1946.

Se i Greci istituzionalizzarono il loro rapporto con l’invidia attraverso l’ostracismo, gli Indiani la affrontarono con la rinuncia. Nessuno potrà essere invidioso di un successo sociale se si rinuncia ad esso, sperando in una compensazione in un altro mondo. Ancor prima di Buddha, “il Rinunciante” era diventato un perenne eroe in India. Ho personalmente conosciuto un gran numero di indiani di successo, costantemente preoccupati che le cose potessero andare “troppo” bene. Temevano che la loro fortuna non sarebbe durata e presto ci sarebbe stata una inversione di tendenza. Per questa ragione molti genitori in India disegnano un piccolo punto nero sulla fronte dei loro figli, per scongiurare ritorsioni da parte degli invidiosi.

I Cinesi, d’altronde, affrontano l’invidia con un atteggiamento eccessivamente modesto, cercando di screditare i propri successi. Dare eccessivo risalto alle proprie capacità, comporta il reato sociale di considerare se stessi come migliori di altri. Cosicchè, la ben nota paura cinese di “perdere la faccia” non è altro che un atteggiamento rituale mirato – in parte – ad evitare l’invidia.

[traduzione da: “The Difficulty of Being Good – on the Subtle Art of Dharma“, Gurcharam Das, Oxford University Press, 2009.]

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