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Oltre il consumo: l’uomo che dà forma al mondo

 

L’uomo è, fin dalle sue origini, un essere che fa.

Questa verità, tanto evidente quanto spesso dimenticata, si manifesta in ogni oggetto che ci circonda, in ogni strumento che ci accompagna, in ogni edificio che abitiamo. «L’uomo è artefice della propria sorte», ricorda l’antico adagio (suae quisque fortunae faber), a sottolineare che il gesto del fare non riguarda soltanto la materia, ma la vita intera.

Il fare come forma del pensare

Il gesto tecnico non è mai puro meccanismo: contiene in sé un atto di intelligenza. Come osservava Giuseppe Lampis nel suo scritto Homo Faber, «il fare è sempre pensare, è un pensiero che prende corpo, che non resta chiuso nell’astrazione ma si misura con la resistenza delle cose». È questo incontro tra idea e materia che distingue l’uomo da ogni altro vivente: non un istinto cieco, ma un sapere pratico, ragionato, sperimentato.

Ogni artigiano lo sa bene: scegliere il legno, battere il ferro, tracciare una linea di progetto significa dialogare con possibilità e limiti, con le leggi nascoste della natura. Martin Heidegger ricordava che l’uomo abita il mondo attraverso la tecnica, non come dominio, ma come poiesis, cioè un portare alla luce, un “disvelare” la verità delle cose.

L’artefice invisibile

Eppure oggi il gesto creativo sembra dissolversi. Viviamo circondati da oggetti, ma raramente ci chiediamo chi li abbia fatti, quale sapere vi si nasconda. Nelle catene industriali globali le mani che plasmano diventano anonime, invisibili. Eppure, proprio lì, nella fatica silenziosa di chi costruisce, si custodisce ancora il nucleo più autentico dell’umano: l’essere artefice.

Lampis osserva come la modernità tenda a ridurre il fare a funzione, a consumo, dimenticando che «ogni strumento è il frutto di un sapere sedimentato, di una memoria che unisce generazioni». In questo senso, l’artigiano non è mai solo: porta dentro di sé la voce dei maestri, dei predecessori, di una tradizione che si rinnova.

Fare o consumare

Il contrasto è netto: chi consuma si limita a usare ciò che altri hanno costruito; chi crea diventa partecipe del mondo. «Non siamo spettatori del reale, ma co-costruttori», scriveva Hannah Arendt distinguendo tra lavoro, opera e azione. Creare è più che produrre: è conferire senso, imprimere significato, dare forma non solo agli oggetti ma alla nostra stessa esistenza.

Tre dimensioni del creare

  • Ragione pratica: ogni gesto creativo è un atto di ragionamento concreto, una decisione che implica conseguenze.
  • Tradizione: il fare non nasce mai da zero, ma si innesta su una memoria tecnica e culturale. «Ogni utensile porta con sé la storia di un problema già risolto», scrive Lampis.
  • Responsabilità: creare oggi significa anche interrogarsi sui materiali, sull’impatto ambientale, sul legame sociale che il nostro gesto instaura.

Un’eredità antica, una sfida contemporanea

Gli antichi lo sapevano bene: dal mito di Efesto, fabbro divino, fino al proverbio latino, il fare è stato considerato una dimensione costitutiva dell’uomo. Oggi, in un mondo di produzione seriale e obsolescenza programmata, recuperare il valore del gesto artigiano significa riscoprire la dignità del tempo, della cura, dell’unicità.

La cultura dei maker, il ritorno alle botteghe, l’ibridazione tra tecniche tradizionali e nuove tecnologie sono i segni di una resistenza, ma anche di un possibile nuovo umanesimo: quello che riconosce nel creare un atto di libertà e di partecipazione.

Conclusione

Essere artefici non significa soltanto produrre oggetti: vuol dire abitare il mondo in modo attivo, responsabile, creativo. Ogni gesto che trasforma lascia un’impronta, non solo sul legno o sull’argilla, ma su chi lo compie. «L’uomo non è spettatore, ma costruttore», scrive Lampis, e in questa semplice verità si cela il destino dell’umano: fare per vivere, creare per essere.

In un’epoca dove tutto sembra già pronto, usa e getta, riscoprire il valore del fare è un atto di libertà, attenzione e bellezza. Essere artefici non è solo una possibilità, ma una scelta che trasforma l’esistenza in un percorso pieno di significato.

Un pensiero su “Oltre il consumo: l’uomo che dà forma al mondo

  • giuseppe curatolo

    Ciao Fabio, immaginerai che io mi possa sentire vicino all’ Homo Faber per il lavoro che faccio ma anche (ma questo tu non lo puoi sapere) per come sono cresciuto fin dall’ infanzia e cioè nell’ officina di mio nonno che mi ha insegnato l’ amore per le materie. Anche le tue fonti sono in parte le mie, fonti di cui, non senza fatica, mi sono innamorato per sempre tra i 20 ed i 30 anni. Ora che i miei dotti amici vogliono lanciare un gruppo di lettura, ne ho timore per la possibile stupidità ma anche curiosità di condividere, spero, il mio sentire e la mia prassi in materia di libri cioè la percezione del libro come ponte verso altre epoche, carta profumata di alberi di pioppo o stracci macerati, inchiostro tipografico fin da quando si faceva con i “ceciarelli” e la ruggine, verso altri lettori sconosciuti, etc. etc. Mi piace il peso e la forma del libro, le copertine ben studiate, i caratteri Bodoni etc etc. Il libro (io amo quelli di carta) è per me una specie di stargate che mi porta in un mondo sconfinato. Tanti anni fa capitai per caso in una fattoria fuori San Gimignano dove un ex docente di Pavia aveva installato una stamperia di libri belli ed invitanti nella loro ruvida semplicità, stampati con antichi caratteri di legno di per. Comprai “Umanesimo integrale” che allora lessi godendo il ricordo di quel luogo bellissimo (cipressi, filari di vite, colline, casali di pietra) e toccando con voluttà quella materia amica. Grazie quindi di quanto mi susciti e spero che ci sia ancora occasione per vederci.

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