OsservatorioScrittura

Colpevoli innocenti, innocenti colpevoli Linate 8 ottobre 2001, vent'anni dopo. In memoriam.

Estratto dal romanzo inedito “L’ira di Wotan”
– scritto con tormento e mai pubblicato –
che narra delle vicende dell’incidente aereo di Linate
dell’8 ottobre 2001 e del relativo processo.

Capitolo 4

Chiusi gli occhi e prima di addormentarmi portai il pensiero alle persone rimaste vittime nel terribile incidente: non conoscevo i loro volti eppure erano anche loro padri, madri o figli a cui un tremendo destino non aveva concesso alcuna via d’uscita. Persone che quella mattina – in perfetta buona fede – avevano affidato la propria incolumità nelle mani di quel complesso coordinamento di attività tecnico-operative che si chiamava aviazione civile e che comprendeva il personale di condotta dei velivoli, le compagnie aeree, le società di gestione, il controllo del traffico aereo e un rigoroso insieme di normative. Ciascuna di queste funzioni inoltre racchiudeva organismi altrettanto complessi che provvedevano allo studio, all’addestramento, alla realizzazione di opere civili e tecnologiche e alla sorveglianza continua di ogni processo, per garantire a ogni passeggero la dovuta sicurezza.

Il Bosco dei Faggi al parco Forlanini, Milano.

Fin dall’inizio della mia carriera mi ero spesso ritrovato a osservare tutto ciò con grande ammirazione; nei primi anni di lavoro mi ero dedicato direttamente alla manutenzione e all’efficienza degli aeroplani e con quanto stupore e meraviglia studiavo i milioni di componenti ed equipaggiamenti che all’unisono, come un meccanismo di un orologio svizzero, concorrevano a realizzare il sogno di Icaro. Poi, proseguendo il mio percorso professionale, oggi potevo avere un punto di vista ancora più generale sul sistema, laddove quell’intricato congegno volante rappresentava solo un anello di una più ampia catena.

Eppure quella mattina avevamo fallito, qualcosa non aveva funzionato e l’uomo si era trovato nuovamente sconfitto in quella lotta iniziata nel momento in cui aveva voluto confrontarsi con la natura e con le leggi che la governavano. In quel momento il mio era un ruolo di grande responsabilità all’interno delle complesse maglie dell’aviazione civile e quella sera sentii di essere stato sconfitto, beffardamente, umiliato in profondità. Dovevo render conto a tutte quelle vittime anche del mio operato e per nessuna ragione al mondo mi sarei sottratto a questo dovere, tuttavia non era lì che nasceva il germe del mio malessere. Qualunque cosa fosse accaduta, qualunque fosse stata la causa di quel terribile incidente, sentivo il bisogno di chiedere perdono a quelle anime perché anch’io facevo parte di quel mondo a cui si erano affidate con estrema fiducia.

E quella sera lo feci, in silenzio.

Non fu naturalmente una notte tranquilla e l’indomani mattina alle sei e mezzo ero già pronto per tornare in ufficio. Avevo paura ad aprire i giornali, temendo che la trasmissione della serata precedente avesse dato all’opinione pubblica un errato feticcio da abbattere. Purtroppo i miei timori erano fondati ed era ormai iniziata una campagna mediatica che avrebbe fortemente condizionato tutto il futuro della vicenda. Questi i titoli dei giornali della mattina:

Corriere della Sera, prima pagina: Linate senza un radar, 118 morti a Milano.

La Repubblica, prima pagina: Scontro tra aerei, strage a Linate. In 118 muoiono tra le fiamme. Il radar di terra era fuori uso.

Il Sole 24 Ore, pagina 15: Il radar nuovo di zecca è ancora spento.

Il Giornale, prima pagina: 118 morti a Linate. Il radar era fuori uso: avrebbe evitato la tragedia.

Era iniziata la corsa al massacro. Con una disarmante superficialità le maggiori testate nazionali giungevano alle loro approssimative conclusioni a meno di ventiquattr’ore dall’incidente, in barba a qualunque indagine della magistratura e dei periti. La più pericolosa e infida arma del terzo millennio aveva inesorabilmente sparato il suo primo e più deflagrante colpo.

Capitolo 7

Il Palazzo di Giustizia di Milano

A volte – a nostra insaputa – ci troviamo sull’esatta intersezione di immaginarie linee che vengono tracciate da altre dimensioni del destino, fenomeni che – nella loro rara espressione – non sappiamo fare altro che classificare nel limbo delle circostanze del tutto casuali, fatali, poiché di più non è dato a noi sapere sulle loro origini. Sia intenzionalmente o in maniera fortuita, non possiamo fare nulla per evitare questo incredibile sincronismo di eventi.

Eppure, se solo una cosa fosse andata diversamente, solo un minimo particolare di tutta l’inconcepibile tragica sequenza…

Se il comandante Koenigsmann fosse stato costretto ad attardarsi a causa di una sanzione dell’autorità aeroportuale per l’atterraggio in CAT III per il quale non era certificato;

se non fosse stato così pressato dai risvolti commerciali e dimostrativi del suo volo e avesse esitato ancora qualche istante mentre ascoltava il bollettino meteorologico dell’aeroporto;

se di fronte al bivio avesse atteso due secondi prima di dirigersi a sud anziché a nord come istruito dal controllore;

se un solo passeggero del velivolo scandinavo si fosse attardato qualche secondo a sistemare il bagaglio a mano;

se il controllore avesse prolungato ancora un istante la sua esitazione di fronte a quella segnalazione sconosciuta del punto S4;

se l’equipaggio del velivolo scandinavo avesse deciso di decollare a spinta piena, staccando il velivolo da terra almeno cento metri prima…

Insomma, sarebbero stati sufficienti due secondi per alterare il drammatico sincronismo degli avvenimenti, solo due incredibilmente brevi secondi per evitare l’immane disastro.

C’erano sicuramente anche altre decine di considerazioni tecniche da fare, e ne parlavamo tutti i giorni fra noi e con gli esperti di tutti i settori. Eppure quella drammatica concomitanza di tempi, così puntualmente esatta nel suo svolgersi in azioni, mi lasciava senza fiato, non riuscivo a crederci e mi tornava alla mente più volte al giorno. Quella perfida e perfetta successione di eventi aveva qualcosa di diabolico: se non avesse generato il pesante drappo di dolore su centinaia di famiglie, sarebbe forse apparsa come uno scherzo beffardo di una macchinazione infernale.

…e così noi prevediamo tutto, ma non il destino; il quale,
non deviato dai nostri pensieri, conserva in tal modo tutta
la sua originaria natura e la sua distruttrice, inopinata potenza[1].

Capitolo 37

Quando non hai mai avuto nessun contatto diretto con la giustizia penale e con lo svolgimento di un processo, il tuo animo si affida a immagini antiche che vi risiedono sopite dalla notte dei tempi. Quelle immagini sono talmente primordiali e radicate in te che non hai nessun motivo per dubitare della loro veridicità, senza renderti conto che esse non provengono dal mondo in cui vivi e non rappresentano affatto la Giustizia degli uomini, quanto piuttosto la materializzazione di un concetto astratto di giustizia sovrumana che ti porti da millenni nella testa insieme all’eredità dei tuoi tratti somatici.

Ricostruzione dell’incidente

È per questo che quando leggi di un avviso di garanzia ricevuto da una persona, immediatamente quell’uomo diventa per te un colpevole quasi certo, o quantomeno un individuo macchiato di un peccato vergognoso, un lercio topo di fogna finalmente smascherato. Se poi quell’uomo subisce un processo e viene condannato, allora non hai più alcun dubbio: la sentenza emessa dal giudice si colloca perfettamente a suo agio nella tua rappresentazione immaginaria della Giustizia, come fosse stata pronunciata da un Supremo Arbitro il cui potere travalichi addirittura quello degli uomini.

Era questa anche la mia convinzione prima dell’otto ottobre 2001. Al solo sentir parlare di tribunali, magistrati e giudici nel mio animo si sollevava un moto di doveroso rispetto e fede assoluta nei confronti di ciò che per me doveva rappresentare l’incondizionata garanzia di equanimità di un valore etico-sociale universale. Ero in ciò anche fortemente condizionato dal mio stesso segno zodiacale: la bilancia, il simbolo della giustizia.

Naturalmente questo ferreo convincimento che ti porti nell’animo è ancor più avvalorato dalla certezza che i giudici pervengano alla sentenza di condanna a fronte di prove inesorabilmente schiaccianti nei confronti dell’immondo imputato, inappellabili azioni di colpa rivelate nel corso del processo e subdolamente taciute e nascoste dal reo. E così ogni volta nel tuo animo tornano a rappresentarsi le immagini della cacciata dall’Eden, del tradimento alle promesse date e del rimprovero di Dio, semplicemente traslate nella tua realtà.

Quando poi, inaspettatamente, ti trovi a dover affrontare le intricate maglie della giustizia reale, cominci lentamente a separare in te il divino dal materiale, conscio di esser stato vittima per anni di un terribile errore di valutazione: i tribunali non sono Celesti e i giudici e magistrati sono uomini mortali, anziché déi, con tutte le miserie e le fragilità della nostra razza. Se poi l’estensione del processo è molto ampia e le relative problematiche piuttosto complesse come lo erano state nel mio caso, ti accorgi che nemmeno l’ovvietà delle prove diventa un elemento certo e ciò che doveva essere chiaro e inoppugnabile, diventa oscuro, nebbioso, incomprensibile. I fatti assumono una rilevanza secondaria a favore delle angosce pubbliche e piuttosto che ricercare la verità nelle cause degli eventi, si avviano incontrollati meccanismi tesi a dover fornire delle rassicuranti risposte a un pubblico più vasto, quello non presente nell’aula ma che raffigura la spaventata collettività.

A quel punto il processo si trasforma in un primordiale rito religioso laddove il giudice si veste della tunica del sommo sacerdote e pronuncia le invocazioni che salveranno il suo popolo dalle ulteriori conseguenze dell’ira degli déi, mentre i subordinati della sua casta trascinano verso la sacra ara la vittima predestinata al sacrificio liberatorio. Solo l’ostentazione dell’offerta potrà garantire la purificazione, placare le spaventose inquietudini della sua gente e ripristinare l’ordine delle cose.

Col sacrificio nutrite gli Déi; in cambio essi nutriranno anche voi.
In collaborazione con loro voi così otterrete il bene supremo.
[2]

 

________________________________________

[1]   Thomas Mann – Il giovane Giuseppe
[2]   Bhagavad-gītā: III, 10-26

4 pensieri riguardo “Colpevoli innocenti, innocenti colpevoli

  • Gaetano Scebba

    Bisogna sempre trovare un capro espiatorio e non può essere “caricata” su una persona che è morta (a causa sua), perchè verrebbe percepita dalla collettività tutta non come la pura verità ma come voler dare un lasciapassare a tutti.
    Sai bene come la penso: la nostra società è divisa in due: una, molto grande, che non vale nulla e l’altra, molto molto piccola, in cui regna il potere.
    Quando accadono eventi che coinvolgono esponenti delle due parti, una forte e l’altra debole, non c’è alcun dubbio sull’esito della vicenda: sarà sempre il forte a vincere anche se non è giusto e morale.
    Ti conosco, so del tuo ferreo rispetto delle regole e sebbene non sia sufficiente, devi dirti che quelle 118 persone conoscono la verità.
    Potrebbe lenire qualche ferita che inesorabilmente si riapre ogni anno e ogni volta che pensi a quell’evento e a quelle 118 persone.

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  • … nella frenesia di quegli eventi, solo il rimpianto di non esserti stato più vicino, come avresti meritato, amico mio …

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  • Carlo Causio

    Il capitolo 37 potrei averlo scritto io. Durante le mie vicende giudiziarie ho scritto molto, anche se mai organizzato in una struttura completa. Persone come noi, quando sono coinvolte in vicende giudiziarie reagiscono con stupore e fiducia nella giustizia, salvo toccare con mano i limiti (umani) dei nostri giudici. La conclusione più amara è, comunque, la fine delle illusioni su un meccanismo, quello della giustizia, che, visto da lontano mi è apparso sempre come infallibile è, forse, giusto.
    Siamo cresciuti.
    La vicenda ha tante similitudini con quella del nostro collega e, x me amico, Vincenzo Soprano, coinvolto è condannato x la strage di Viareggio.

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  • ti ho conosciuto tempo dopo il fatto, e non venni a sapere la tua storia che altro tempo dopo.
    Rimasi stupito, è ovvio, ma non tanto per la cosa in sè, quanto perchè da quando ti avevo conosciuto mi eri apparso come un uomo con un senso etico forte. mi sei apparso subito come un uomo in pace con se stesso.
    Essere in pace con stessi è forse la vittoria più ambita cui un essere umano possa giungere.
    Quando Kant si accorse di essere vicino alla fine disse “sta bene”, e nelle ultime pagine della “Critica” possiamo leggere la famosa frase “il cielo stellato sopra di me, il mondo morale in me”
    ma poiché mi è dato di esprimermi con la Musica, sebbene non mia, piuttosto che con le parole, continuerò con questa..

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