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Dalla lingua degli angeli a quella dei robot Intervista ad Anna Maria Granatelli

La parola comunica il pensiero,
il tono le emozioni.
(Ezra Pound)

 

Il professor Giuseppe Patota* – ordinario di Linguistica Italiana all’Università di Siena – ci ha spesso ricordato come “la grande bellezza” non sia solo quella delle immagini del cinema (evocate dal regista Roberto Sorrentino), ma anche e soprattutto quella legata alla nostra lingua e al suo enorme patrimonio culturale. Scrive il filosofo Giuseppe Lampis: “…la cultura non sorge con la fabbricazione di strumenti ma con la parola. L’uomo non si stacca dalla natura, ovvero dalla eredità biologica, con la produzione di oggetti ma parlando e comunicando. Il primo uomo dunque non è il faber ma il comunicatore e in sostanza il poeta“. Il linguaggio è un evento che precede l’individuo, è l’inizio.

La nostra lingua è sempre stata ricca di potenzialità immaginative e poetiche, di metafore e di espressioni evocative. Tuttavia nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una continua erosione della lingua parlata, che ormai sembra priva della possibilità di esprimere con le parole contenuti ampi e semanticamente complessi. Il “lessico fondamentale dell’italiano“, come è stato denominato da Tullio de Mauro l’insieme di tutte quelle parole indispensabili con cui componiamo il 90% dei nostri discorsi, sta subendo un drammatico depauperamento e sempre più vengono utilizzate frasi preconfezionate di significato univoco che rispondano a regole di semplicità di interpretazione.

In altri termini, si tende a semplificare l’immensa ricchezza della nostra lingua, fino a riportarla verso una semplice e arida decodifica tabellare “parola<->significato, per adeguarla a un processo tecnologico che non può ammettere interpretazioni, ma solo certezze. Da qui la nostra preoccupazione di fronte a modalità comunicative che tendono progressivamente a tramutarsi in un linguaggio che utilizza codici univocamente decodificabili.

Famoso è il verso di Friedrich Hölderlin «Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra». Trasformare una lingua in un codice rischia di privare l’uomo delle sue capacità immaginali e creative rendendolo sempre più simile a un robot. Per quest’ultima materia, si rimanda agli articoli: Le ambigue promesse della robotica antropomorfa e Il futuro avrà ancora bisogno dell’uomo?

Thomas Mann fa pronunciare al protagonista del romanzo “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull” una sorta di dichiarazione d’amore per l’italiano: «Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. <…> Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano. Impossibile d’immaginare che queste beate creature si servano d’una lingua meno musicale».

 

Anna Maria Granatelli

Abbiamo incontrato la dottoressa Anna Maria Granatelli, filologa, per una breve discussione sull’argomento. Anna Maria Granatelli, laureata in Filologia moderna, fa parte della segreteria scientifico-organizzativa dell’Istituto Mythos e della segreteria di redazione della rivista ‘atopon’. Ha collaborato alla organizzazione di numerosi convegni nazionali e internazionali di Antropologia Simbolica. Appassionata di arte antica e rinascimentale, ha curato e presentato mostre fotografiche di opere d’arte, redigendone i testi di presentazione.

 

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F.M. Prendendo spunto dalla pubblicazione dell’ultimo lavoro del Professor Giuseppe Patota “La Quarta Corona – Pietro Bembo e la codificazione dell’italiano scritto” e del suo successo, abbiamo ritenuto importante soffermarci sul tema della tradizione della lingua italiana. Quali sono gli elementi fondamentali che rendono non solo prezioso ma anche attuale un autore del quindicesimo secolo?

 

A.M.G. Credo che l’importanza di preservare la tradizione della nostra lingua sia molto simile all’esigenza, sentita dai filosofi e letterati del XV sec, di creare una lingua nobile che guardasse al futuro della cultura dell’intera penisola italiana. Gli intellettuali del tempo non facevano parte di uno stato nazionale e spesso non parlavano neanche la stessa variante di volgare ma nondimeno si impegnarono tutti nel recupero dei valori di una tradizione che aveva la sua matrice nel grande patrimonio artistico e culturale del passato.

Nella nostra società, come in quegli anni, si assiste a una crisi che è anzitutto crisi dell’identità di un popolo. Come nel ‘500 l’uomo si poneva il grande interrogativo: ‘cosa sarà dell’uomo domani’, così oggi dobbiamo porci lo stesso quesito. ‘Come fare a salvare la nostra identità culturale?’

La riposta è ancora quella che suggerisce Bembo, illustre umanista, protagonista del Rinascimento italiano nelle ‘Prose della volgar lingua’. Il fine da perseguire per la lingua delle scritture, ”consiste semplicemente nel dovere di scrivere bene” in assoluto, e di discostarsi dalle usanze del popolo e della contemporaneità, imitando ‘l’oro purissimo’ che splendeva nelle opere di Petrarca e Boccaccio frutto della loro alchemica ricerca della perfezione espressiva della lingua volgare.

 

F.M. La lingua parlata, così come quella scritta, è considerata simile a un organismo vivente e – in quanto tale – soggetta a mutazioni evoluzionistiche e adattamenti contestuali e temporali. Vecchie parole lasciano il posto a quelle nuove, mentre sono sempre più numerosi i termini (soprattutto stranieri) che si aggiungono al nostro vocabolario. Qual è la sua opinione in merito?

A.M.G. La lingua deve essere un organismo vivente in quanto espressione di una comunità, di un popolo, di una nazione ed è importante che cresca con essa. Ma proprio come un albero ogni anno si irrobustisce e gemma nuove foglie e fiori, sempre più affondando le sue radici nel terreno per trarne la linfa vitale, così la lingua deve essere una continua creazione che esprima nuovi contenuti. I nuovi vocaboli saranno incastonati nella trama di quel tessuto prezioso nel quale il popolo nei secoli ha istoriato la propria vita, ha espresso se stesso e il suo dialogo con il mondo, con gli altri, con l’Altro.

 

F.M. Il fenomeno dell’introduzione di tecniche abbreviate di scrittura nasce probabilmente con l’introduzione degli SMS nei primi telefoni cellulari, dovuto essenzialmente alla limitazione del numero massimo di caratteri in un messaggio. Al giorno d’oggi queste limitazioni non sono più presenti nella rete dei media “sociali” (anche Twitter sta eliminando questa caratteristica) eppure sembra che l’abitudine di condensare quanto possibile il proprio messaggio sia ormai consolidata. A suo parere, potrebbe questo fenomeno essere legato a una generalizzata “pigrizia di lettura” (vedi ns articolo “Lettura e immagini: le reazioni del cervello“)?

A.M.G. Il mondo contemporaneo, e non solo il mondo occidentale, è proteso verso l’efficienza tecnologico-scientifica, massima divinità idolatrata ai nostri giorni. La lingua diviene dunque sempre più espressione di un pensiero calcolante proteso a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Da qui il prevalere di comunicazioni standardizzate, frasi fatte che assicurino la comprensione immediata di un problema, la ricezione di un messaggio che si vuol veicolare nella maniera più rapida, in maniera ‘virale’, per usare una brutta espressione oggi sempre più usata. Sembra che il regno della quantità, abbia prevalso su quello della qualità. E dunque è quasi d’obbligo usare una modalità denotativa, propria della letteratura scientifica, in cui a una parola corrisponda un unico significato a scapito di una modalità connotativa, poetica e creatrice che conservi la ricchezza semantica di ogni parola, le mille accezioni, le sfumature di significato, i rimandi simbolici, le corrispondenze profonde con la natura.

 

F.M. Sono ormai diversi anni che il Prof. Patota, (recentemente insignito del Premio 2017 per la Linguistica e la Filologia in una cerimonia alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella) ha associato alla sua attività principale di ricerca e insegnamento un interessante e prezioso percorso divulgativo attraverso i suoi libri. Ci domandiamo quale attenzione nei confronti dell’uso più appropriato e corretto della lingua italiana si pongono oggi coloro che si occupano di comunicazione?

A.M.G. Credo sia veramente prezioso e, direi, assolutamente indispensabile fare una seria divulgazione affinché la lingua italiana, erede del portato delle antiche culture mediterranee e degli scambi linguistici con tutte le lingue europee possa divenire non solo vivente ‘Patrimonio dell’Umanità’ ma vivo patrimonio degli Italiani.

 

F.M. Ci sono errori ricorrenti i quali, a prescindere dall’inesattezza grammaticale, introducono confusione nella comunicazione e nella modalità di esporre una notizia e trattare un argomento?

A.M.G. Quando il vocabolario usato è drasticamente ridotto a pochi vocaboli correnti, vengono meno tutte le sfumature della comunicazione, le scelte linguistiche che permettano differenti chiavi di lettura e un’interpretazione profonda che interpreti anche il non detto, l’allusione, la metafora . Il rischio di una comunicazione che utilizza slogan, frasi fatte, di sicuro impatto emotivo e che provochino consenso porta a un abbassamento della capacità critica del lettore e dell’ascoltatore.

 

Anna Maria Granatelli

F.M. Nella società di oggi, nel mondo “accelerato” dei Paesi occidentali o “occidentalizzati”, nel linguaggio giornalistico, in quello aziendale e talvolta anche in quello politico sono ormai comuni espressioni come “trend di crescita“, “decision making“, “value proposition” e “brandizzazione del prodotto“. È veramente così difficile esprimersi in italiano in questi ambiti?

A.M.G. La nostra lingua è ricchissima di termini che possono facilmente esprimere i concetti da lei evidenziati. Il problema, come dicevo prima, è che siamo ormai abituati dai media a utilizzare il linguaggio in modo, direi quasi, economico, e questo crea una grande riduzione della capacità di espressione e di nuovo preferiamo il fattore quantitativo a quello qualitativo, nella presunzione che il lettore sia più motivato a leggere o ad ascoltare un testo compatto e breve, in cui il messaggio non richieda sforzi interpretativi. Inoltre è anche una questione di ‘tendenza’, crediamo spesso che l’utilizzo di termini stranieri dimostri una maggior professionalità e competenza. Di certo sarebbe sciocco ignorare che la nostra lingua ha già assorbito e fatto sue molte parole provenienti dalla lingua inglese e da mutate condizioni geo politiche e culturali, quindi, direi, usare questi termini, sì, ma tenendo bene a mente che sono solo uno strumento e non il punto di arrivo di una comunicazione più propriamente ‘scientifica’.

 

F.M. Come nei filmati possono essere inseriti messaggi nascosti attraverso immagini di carattere simbolico al fine di indurre reazioni emotive nell’osservatore, sarebbe interessante conoscere come la lingua attraverso parole-icone possa veicolare messaggi persuasivi.

A.M.G. Parola è un concetto che va oltre il mero fatto linguistico. Il vangelo di Giovanni inizia con en arché estì o logos, in principio era la Parola e la parola era presso Dio e la parola era Dio.

Il filosofo Heidegger dice che la parola è l’e-vento dell’Essere il quale si offre all’ascolto dell’uomo, e questi ha il privilegio di essere il custode dell’esprimersi dell’Essere. Ognuno di noi è una parola, un segno che va a collocarsi nel grande discorso della vita. Fino a poco tempo fa anche le persone più semplici dicevano ‘sono un uomo di una sola parola’ a indicare la loro fedeltà a se stessi, ai propri principi e dunque in semplicità si dichiaravano fedeli custodi dell’Essere. Oggi è sempre più raro ascoltare espressioni simili. Al contrario, sembra essere importante diventare degli opinion maker (e qui intenzionalmente uso la parola straniera ormai d’uso) che, come insegna la pubblicità ovunque imperante, sappiano usare i segreti della lingua per incantare il pubblico e, al pari della maga Circe, condurlo docile verso il miraggio della soddisfazione di desideri indotti, che si rivela presto la prigione più o meno dorata di un evanescente paese dei balocchi.

 

F.M. Ci sono errori ricorrenti i quali, a prescindere dall’inesattezza grammaticale, introducono confusione nella modalità di esprimere il quotidiano o esporre una notizia?

A.M.G. Dal punto di vista strettamente lessicale pensiamo alla parola “piuttosto” che troviamo nel dizionario in solo due accezioni 1. comparazione tra due parti uguali del discorso ( piuttosto che chiedere l’elemosina andrei a lavorare in campagna), 2. Con il significato di alquanto, abbastanza (fa piuttosto freddo). Non è contemplato l’uso di ‘piuttosto che’, con significato avversativo ma questo vocabolo è comunemente utilizzato da giornalisti, politici, ecc proprio in questa accezione, creando una sorta di frizione nel processo decodificativo.

Altro fenomeno interessante è quello dei calchi sempre più utilizzati nel linguaggio comune proprio a causa dell’enorme esposizione della lingua italiana a contaminazioni con l’inglese.

L’uso di questi termini è in genere ristretto ad ambienti poliglotti ma non di meno informa ormai la lingua italiana nei mass media ( ‘shooter’ tradotto con ‘sparatore’, o addirittura il semplice ‘have a nice day’ tradotto ‘con buona giornata’, invece del nostro classico ‘buongiorno’, nonché, dal linguaggio giovanile, ‘che stai facendo’ da ‘what are you doing’, che riporta un presente progressivo non contemplato nell’italiano classico).

 

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In occasione della recente aggressione informatica ai danni di Unicredit, qualche giorno fa la televisione intervistava un alto dirigente dei Servizi Digitali della banca il quale, per rassicurare i propri utenti, dichiarava che “tutte le credenziali dei clienti sono ‘storate’ con sicurezza“. Si può immaginare che il funzionario volesse riferirsi al termine inglese “to store“, ma davvero in una comunicazione ufficiale con la propria clientela non è riuscito ad articolare le parole “immagazzinate” o “registrate” o “custodite“? Forse la grande varietà di scelta e di significati che offre la lingua italiana lo ha messo in imbarazzo e ha preferito rispondere come avrebbe risposto un robot: “stored“!

 


* Giuseppe Patota, professore ordinario di Storia della lingua italiana presso l’Università di Siena-Arezzo. Il prof. Patota è Accademico corrispondente della Crusca, socio corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia e membro della giuria del “Premio Strega”. È inoltre Direttore Scientifico del Dizionario Italiano Garzanti e consulente scientifico del Thesaurus dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Ha al suo attivo oltre novanta pubblicazioni, alcune delle quali sono state tradotte e pubblicate in Francia e in Giappone.

Un pensiero su “Dalla lingua degli angeli a quella dei robot

  • Prendere coscienza dell’evoluzione ci pone al riparo da un grande male: l’ignoranza. Bravi!! Le foto rivelano un talento ancora non ben coltivato, soprattutto la prima

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