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Ipseità Digitale: quale identità?

 

Un’analisi semantica

Si prevede che nell’arco dei prossimi tre anni, oltre sette miliardi di persone saranno connesse tra loro attraverso internet. Nel frattempo, la rete ha visto un interessante proliferare di sistemi per la gestione dell’identità digitale (da qualche anno ad esempio la Pubblica Amministrazione italiana ha introdotto lo SPID – Sistema Pubblico di Identità Digitale). Ma cosa s’intende espressamente per “identità digitale“? Tutti questi sistemi sono realizzati al fine di avere la massima certezza che i dati inseriti dal sottoscrittore (nome, indirizzo, data di nascita, telefono, email, ecc.) siano certamente coincidenti con quella della persona fisica. In altri termini, i dati vengono certificati per essere “identici” a quelli dell’utente; c’è un rapporto di sovrapposizione e perfetta uguaglianza tra la pagina digitale e il certificato anagrafico autentico dell’utente: un “idem“, cioè un’identità.

Pertanto, questa identità è il nostro riflesso anagrafico in rete, nulla più di ciò. Ovviamente, questo dato dovrà essere opportunamente protetto da tentativi dolosi di effrazione e dalle comuni regole della privacy in quanto contiene informazioni cosiddette “sensibili” (età, indirizzo, telefono), ma il dato in sé non è sufficientemente interessante per il mercato commerciale, se non per scopi statistici sui gruppi omogenei di popolazione.

Ciò che invece può rappresentare una vera miniera preziosa per la “web company” è piuttosto un altro tipo di informazione, l’ipseità dell’utente. È importante rimuovere subito la forte ambiguità semantica che pesa sulla nozione di identità. In essa si sovrappongono due significati distinti, che il latino esprime con idem e ipse. Scrive il filosofo Paul Ricoeur nel suo articolo “L’identità narrativa” in «Revue des sciences humaines», “Secondo il primo significato ‘identico’ è sinonimo di ‘estremamente simile’, ‘analogo’ (idem). Il medesimo, o meglio ancora l’uguaglianza, implica una qualsiasi forma d’immutabilità nel tempo. Nel secondo significato, nel senso di ipse, ‘identico’ si lega al concetto di ipseità, di un se stesso. Un individuo è identico a se stesso. Questo secondo significato non implica alcuna fissazione quanto alla permanenza, alla persistenza“.

Per ipseità – secondo Ricoeur – va intesa la dimensione del sé, ossia l’ambito della mediazione riflessiva. L’identità, come medesimo, riguarda un aspetto immodificabile del soggetto (i dati oggettivi, statici e immutabili); invece l’ipseità è l’aspetto narrativo che si modifica ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé (il suo comportamento in rete). A differenza del medesimo, in cui l’invariante è legato al passato, l’ipseità rappresenta la dinamica della proiezione nel futuro.

Ciascun individuo forma un’identità integrando le proprie esperienze di vita in una storia interiorizzata, che fornisce all’individuo stesso un senso di unità e di scopo nella vita. Questa narrazione della vita integra il passato ricostruito, il presente percepito e il futuro immaginato, realizzando dinamicamente la propria ipseità. Considerando che circa il 70% della vita di un utente medio è oggi codificata in flussi digitali, questa narrazione diventa una parte integrante della formazione dell’ipseità digitale dell’individuo in rete. Non è difficile immaginare come queste informazioni possano essere facilmente tradotte in messaggi commerciali o in guide di orientamento di grandi masse.

 

L’esposizione in rete

Abbiamo già scritto (Libertà va cercando… nell’infosfera?) come le informazioni personali siano oggi la vera moneta del web. La fortuna dei grandi servizi gratuiti (Google, Facebook, Instagram, ecc.) è stata realizzata attraverso la vendita dei dati ricavati da tutte le identità digitali in rete. Ogni volta che viene sottoscritto o usato un servizio gratuito a larga scala, occorre domandarsi come possa tale servizio sopravvivere alle spese (grandi infrastrutture digitali, personale, software) senza alcun introito evidente; nella maggior parte di questi casi l’altro piatto della bilancia, quello più ricco ed economicamente seducente, è rappresentato dall’uso dei dati degli utenti. Questi dati contengono informazioni commerciali preziosissime per tutte le aziende.

Ecco qualche esempio:

  • Social media: attraverso le comunicazioni e i post sui social media è semplice realizzare algoritmi che individuano abitudini, orientamenti e preferenze politiche, sociali e religiose.
  • Investimenti e borsa: quante persone nel mondo stanno seguendo l’andamento di quel particolare titolo di borsa, ovvero quale investimento risulta maggiormente interessante per i laureati fra i 40 e i 50 anni? Queste – e molte altre – domande trovano risposta nelle grandi banche dati a disposizione dei servizi finanziari online.
  • Istruzione e formazione: i dati che si riferiscono ai percorsi formativi ed educativi degli utenti caratterizzano fasce culturali specifiche, necessarie per orientare pubblicità mirate.
  • Comunicazioni: i moderni smartphone consentono ai grandi fornitori di comunicazione di rilevare posizioni e abitudini degli utenti. Dalla loro elaborazione accurata attraverso algoritmi di Data Analysis, è ad esempio possibile verificare quanti utenti si sono soffermati davanti a una particolare vetrina, o quante persone partecipano a un evento promozionale.
  • Spese: i grandi magazzini online (primo fra tutti Amazon) dispongono di un database enorme e ricchissimo di preziosi dati relativi alle preferenze di acquisto suddivise per località, età, istruzione e genere. Questo magazzino di informazioni ha un valore inestimabile per il mercato commerciale.

Il dato, quindi, è la ricchezza e nel dato nascono le storie personali. Nella nuvola digitale dei dati che ci avvolge dalla rete, si nasconde la narrativa della nostra vita. In altri termini, i nostri dati sembrano raccontare la nostra storia. Ma quale storia?

 

Un alter-ego

Occorre, infatti, considerare che questi dati sono raccolti e memorizzati a nostra insaputa sulla base di decisioni estemporanee e approssimative. Perciò la storia che viene raccontata non è esattamente quella che rispecchia la nostra ipseità, ma solo un aspetto superficiale e offuscato della stessa. Quindi quella storia non potrà mai veramente raccontare la nostra persona e l’errore più pericoloso e ambiguo sta proprio nel fatto che come tale viene invece considerata. Sembra infatti che questi dati vengano anche messi a disposizione degli uffici per la selezione del personale, affinché dispongano di informazioni “più complete” sulle quali generare una decisione di assunzione o meno.

Non si tratta perciò di vere e proprie “ipseità”, quanto piuttosto di un generico “profilo comportamentale digitale“, altrettanto privato in quanto tiene traccia di ogni nostra attività nella rete. Potremmo definirla con un nuovo termine “Dipseità” per distinguerla appropriatamente da ciò che è invece rappresentato dalla vera narrativa personale.

Si consideri inoltre che molto spesso, nella partecipazione a forum o comunità virtuali, gli utenti assumono volutamente un “avatar” per mascherare le proprie identità, per offrire immagini diverse di se stessi. Trascurando l’uso improprio e la banalizzazione linguistica del termine (“Avatar” nella lingua sanscrita indica “colui che discende” ed è usato nella tradizione induista per indicare l’assunzione di un corpo fisico da parte di un dio), questi meccanismi portano ad allargare ancor più la forbice tra l’identità individuale e quella digitale.

Tuttavia, seppur in questi casi l’adozione di un alter ego possa essere palese, accade spesso che nell’esposizione pubblica in rete di noi stessi si tenda all’offuscamento di quelle che sono le caratteristiche peculiari di un tratto distintivo, per esaltarne altre che non fanno parte della propria personalità ma che rappresentano forse una proiezione, un desiderio o semplicemente la volontà di celare una particolarità del carattere.

A questo punto, l’ipseità digitale diventa solo un ambiguo alter ego, una rappresentazione “altra” e spesso incontrollata della nostra individualità e, proprio a causa di tale ambiguità, un pericoloso strumento che potrebbe portare verso inaspettate derive e conseguenze.

 

Profilassi digitale

A Singapore, una delle città più digitalizzate del mondo, proiettata verso un futuro fortemente tecnologico, questi dati personali vengono impiegati dalle forze dell’ordine per “prevedere” eventuali azioni delittuose da parte dell’individuo e intervenire di conseguenza ancor prima del verificarsi dell’eventualità. Ciò riporta alla mente il film del 2002 “Minority Report” di Steven Spielberg, nel quale il protagonista (un funzionario delle forze speciali di polizia) arrestava i potenziali criminali sulla base di “proiezioni” future. Tuttavia, in quel caso la “profezia” veniva generata da una serie di persone dotate di poteri premonitori extrasensoriali (Precog), immersi in un liquido stimolatore. Nemmeno la fantascienza ha quindi azzardato l’uso dei dati personali degli utenti – chiaramente frammentari e imprecisi – per questo genere di interpretazioni.

Recentemente il Parlamento Europeo ha avviato una serie di gruppi di studio per realizzare una normativa di riferimento generale relativa alla tutela di questi dati personali e alla difesa della dignità digitale dell’utente. Nel frattempo, occorre tenere presente che un nostro alter-ego si aggira nella rete, costruito attraverso le nostre abitudini più esposte, le nostre preferenze di acquisto o le fotografie e testi pubblicati nei social media. Conoscerlo, può servire ad aumentare la consapevolezza personale sebbene sia pressoché impossibile evitarlo.

Si legge spesso di nuove iniziative per introdurre nelle scuole inferiori gli insegnamenti di base per l’uso della rete. Auspichiamo che in tali insegnamenti sia fondamentale e propedeutico un corso di “Profilassi Digitale” che tenda a evidenziare e ridurre i rischi di una presenza in rete errata ed eccessivamente esposta nelle giovani generazioni. Talvolta sono sufficienti poche precauzioni eppure così come un’educazione comportamentale è fondamentale per la vita reale, altrettanto lo dovrebbe essere – oggi più che mai – nella vita in rete.

 

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