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Perché i bambini sanno usare l’immaginazione meglio di noi?

Rainforest
Raffaella Sole – Rainforest (particolare)

I bambini sanno usare l’immaginazione meglio di noi perché sono (ancora) immediatamente in contatto con il Tutto e rappresentano il prototipo più incontaminato dell’essere umano. Dalla nascita e per i primi anni di vita, il bambino è lo specchio della nostra specie, che trasporta in sé gli elementi primari dell’evoluzione e le sue radici senza condizionamenti o interferenze. Quando poi comincia l’educazione, soprattutto quella scolastica, la sua immaginazione è imbrigliata e limitata, si fa di tutto perché si interessi solo di ciò che è ‘reale’ ed esca dal mondo della fantasia. Nei primi esercizi di disegno a cui i bambini vengono sottoposti a scuola, non si accetta la loro immaginazione o l’aspetto di come essi percepiscono alcuni elementi della natura, ma si premia il disegno che maggiormente si adatta a una visione fotografica della realtà, inibendo fin dall’inizio la loro propria potenzialità immaginativa a favore di una più tranquillizzante omologazione.

Questa caratteristica di scissione degli aspetti più liberi e originari della mente umana dalla realtà si fa poi ancor più evidente nei recenti secoli di storia del mondo occidentale e già ne parlava Giambattista Vico nella sua opera La Scienza Nuova (1744). La principale preoccupazione del Vico era connessa al fatto che il nuovo indirizzo teorico, promosso dalla Rivoluzione scientifica, assumesse un ruolo autoreferenziale assoluto: egli temeva che il nuovo metodo scientifico volesse proporsi come l’unico metodo giusto e non solo come uno dei tanti metodi a disposizione, valido in certi ambiti così come lo erano gli altri. Vico sottolineava appunto, accanto alle discipline fisico-matematiche e naturali, l’esistenza di quelle scienze che, a partire dalla fine del 1600, qualcuno aveva cominciato a denominare in Francia “scienze umane” (psicologia, sociologia, letteratura, politica ecc.). Egli insisteva sull’esistenza di categorie, procedure, criteri, metodi “diversi” da quelli utilizzati nelle scienze della natura eppure dotati di una loro validità e scientificità.

Posti di fronte a immagini digitali, scene in movimento o fotografie che non avremmo mai immaginato per nostro conto, si rimane sempre incantati e meravigliati. Ma la sottomissione continua e passiva di questa meraviglia non consente all’individuo di partecipare sufficientemente in profondità al fenomeno creativo dell’immaginazione. Il processo immaginativo richiede la partecipazione attiva nella creazione, per giungere così a quello stato in cui ci si perde piacevolmente nei propri pensieri, quel sogno a occhi aperti che Gaston Bachelard chiama “rêverie“.

Fu la vivacità di pensiero di Carl Gustav Jung a rilevare in maniera inconfutabile la natura iconografica del pensiero umano e capire che l’immagine racconta una storia universale. Secondo Jung, infatti, l’immaginazione e l’intuizione sono realtà di vitale importanza anche in tutti i livelli superiori della scienza: persino la fisica si fonda in maniera sbalorditiva sull’intuizione che opera per mezzo della potenzialità immaginativa. La radice vitale dell’Uomo, in altri termini, è propriamente inconscia per natura.

Disegno di C.G. Jung tratto dal “Libro Rosso”
Disegno di C.G. Jung tratto dal “Libro Rosso”

Nella seconda metà del secolo scorso, il grande antropologo ed epistemologo Gilbert Durand ha saputo cogliere la vasta rivoluzione del nostro tempo che affermava la necessità di superare la radicale distinzione tra sapere razionale e sapere immaginario. Secondo Durand, l’uomo utilizza costantemente la sua capacità di superare i semplici legami simbolici dell’animale attraverso la ricchezza spontanea delle articolazioni simboliche complesse. Ogni pensiero è rappresentazione: la presentazione di un’immagine stimolante nell’uomo è immediatamente circondata da un corteo di possibilità di articolazioni simboliche. L’immaginario dell’uomo è sempre simbolico (cfr. G. Durand, L’imagination symbolique, 1964). Proprio questa immaginazione permette all’uomo -secondo Durand – un riscatto dall’oppressione della sua situazione contingente, dalla prigione della pura fattualità meccanica, concedendogli di intravedere una nuova possibilità̀ di libertà e di salvezza.

Nell’uomo è indotto un senso di assuefazione al trascurare il suo potenziale immaginativo, provocato dall’uso indiscriminato della tecnologia avvolgente in cui è immerso. Oggi non c’è bisogno di immaginare, c’è chi lo fa per noi e c’è sempre l’oggetto costruito appositamente per evitare che si faccia uso dell’intuizione e dell’ingegno. La televisione e la rete ci tempestano di immagini già pronte, di associazioni visive “usa e getta“, quindi – soprattutto nelle nuove generazioni – l’impiego di proprie risorse immaginative è spesso soffocato e atrofizzato.

Eppure è costante, seppur inconsapevole, una ricerca di senso da parte dell’uomo moderno. I fenomeni legati al dilagare di tatuaggi e piercing – ad esempio – rivelano una latente necessità di espressione simbolica e di appartenenza tribale che denota l’emergere di alcune delle caratteristiche principali dell’essere umano. Molto spesso la marcatura di un simbolo tatuato sulla pelle non è accompagnato dalla conoscenza profonda del significato del simbolo stesso, eppure qualcosa spinge comunque quella persona a voler testimoniare la sua personale esperienza trascendentale. E laddove non si ricorre al tatuaggio, talvolta si tratta di un oggetto da tenere sempre con sé, un minuscolo totem che assume le sembianze di uno spirito-guida in cui riporre quelle minime aspettative di senso che la società moderna tenta di negare in ogni istante.

Con la desacralizzazione della vita e del creato, l’uomo contemporaneo ha “rimosso” il simbolo dalle zone oscure della psiche, cioè dal sogno, dalle fantasie, dalle memorie ancestrali e dall’immaginazione.

Soltanto l’immaginazione può sollevarci su un piano più alto, ampliare il nostro orizzonte e trasformare così la nostra visione degli accadimenti in ogni attività della nostra vita quotidiana personale o di lavoro. Se siamo ispirati e sostenuti dall’immaginazione, gli avvenimenti non ci appaiono più come esclusivamente appartenenti al piano fisico e quindi soggetti alla legge della gravità e dell’inerzia, ma divengono innanzitutto accadimenti dell’anima e come tali possono essere meditati, trasfigurati, trasformati dalla capacità creativa della nostra intelligenza.

Se apri la mente all’impossibile, talvolta trovi la verità. Ma aveva già detto Eraclito «se non speri l’insperabile non lo scoprirai, perché è chiuso alla ricerca, e ad esso non conduce nessuna strada»

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