Studi IntegraliOsservatorio

Un lungimirante Pirandello

 

In questi mesi ho cercato di svolgere alcune ricerche e approfondimenti sul tema della tecnica in relazione ai riflessi che essa può indurre sul comportamento umano e sulla possibile riduzione di creatività e immaginazione che la stessa potrebbe provocare (si vedano alcuni precedenti articoli in questo blog e la conferenza “Tecnoscienza e Scienza dell’Uomo”).

1.pirandelloMentre continuavo a riflettere su questo tema, in un momento di relax mi sono imbattuto del tutto casualmente con una pagina del romanzo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” di Luigi Pirandello, che riporto qui di seguito.

Ho dovuto constatare che Pirandello, circa 90 anni fa, aveva già detto così semplicemente e in maniera così incisiva tutto quello che faticosamente negli ultimi mesi cercavo di chiarire a me stesso, ai miei ascoltatori e ai miei eventuali lettori.

Il romanzo in questione fu scritto dal grande artista italiano nel 1925, proprio nel momento in cui il movimento Futurista (e un consistente strascico del positivismo dell’ottocento) esaltava le macchine e la tecnologia come fondamentali elementi di sviluppo umano. Da qui, la convinta polemica di Pirandello nei confronti di questa idea, ben delineata in questa e nelle successive pagine del romanzo.

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.

Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!

 L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.

Viva la Macchina che meccanizza la vita!

 Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.

 Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?

 È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.

 La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sú, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giú, e tal altro ingombro, non piú dentro ma fuori, ce ne fa, che ‑ Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? ‑ non sappiamo piú dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!

 Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.

 Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica.

Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenío continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.

Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.

C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzío dei pali telegrafici? lo striscío continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile? quello dell’apparecchio cinematografico?

Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzío, questo ticchettío perpetuo, sí, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.

Si spezzerà?

Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire. In nulla, piú in nulla, in mezzo a questo tramenío vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzío per ciascuno di noi non cesserà.

Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio operatore
Quaderno I capitolo II – 1925

Un pensiero su “Un lungimirante Pirandello

  • Silvana Mammucari

    Eri un grande al Liceo e lo sei sempre più. Come un Brunello di Montalcino.

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